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“I miei 21 giorni a Savona. Lascio un pezzo di cuore”

“Appena possibile, tornerò a salutare i nonnini. Lascerò qui un pezzo di cuore e la commozione delle carezze con tre paia di guanti”.

Da Sarno a Savona, ben 800 chilometri, con la sua divisa bianca si è messo al servizio dell’emergenza, attraverso una domanda volontaria, per fronteggiare il Covid19 ed aiutare i colleghi nelle zone più critiche per circa 21 giorni. Immaginava di essere destinato ad un ospedale, è approdato invece prima in una Rsa, struttura che aveva vissuto i giorni più duri, tra dolore e speranza per i nonnini ricoverati, i contagiati tra pazienti e personale; poi, in una scuola di polizia penitenziaria diventata Covid Center, con pazienti positivi asintomatici.

E’ Luigi Liguori, 35 anni, in forza all’ospedale Martiri del Villa Malta di Sarno, nel reparto di medicina, che si è unito alla carovana di aiuto dei camici bianchi in viaggio verso il nord Italia e le aree più complesse di contagi ed emergenza coronavirus.

IL   RACCONTO   COMMOVENTE    DI   LUIGI LIGUORI 

“Mi sono catapultato completamente – racconta – Ho visto la stanchezza dei colleghi, ho preferito non prendere alcun giorno di riposo per poter essere appieno la loro spalla. Tutto è iniziato con il bando della Protezione Civile, ho sentito forte il richiamo sia professionale che umano di dover sostenere i colleghi più in difficoltà ed i pazienti nelle zone più colpite dal contagio. Sono stato assegnato alla Liguria, a Cengio in provincia di Savona. Poi, destinato ad una Rsa duramente provata dai contagi. Sicuramente immaginavo di dover lavorare in un ospedale, come ho sempre fatto, è stata un po’ una sorpresa, ma non ho avuto timore, ho soltanto pensato di dover fare del mio meglio. E’ difficile descrivere quanto vissuto, l’amore e la forza di questi nonni, la voglia di lottare, la fiducia nell’altro. Non è un qualcosa di scontato, anche perché ora lavoriamo in una modalità che ci rende irriconoscibili con mascherine, visiere, guanti, calzari, tute. Una cosa per me è stata subito importante: abbattere le barriere nonostante le protezioni, evitare che dispositivi fossero un freddo intermezzo tra me ed i pazienti. Riuscire, quindi, durante la terapia ed i controlli, a trasmettere il calore umano attraverso tre paia di guanti; far sentire una carezza, una mano stretta di sostegno.

“E’ stata una esperienza umanamente toccante, fatta di legami immediati con queste persone anziane, alcune delle quali anche affette da Alzheimer che neppure sapevano cosa stessero combattendo. A breve rientrerò a Sarno, e porto dentro me le storie di ogni paziente. Un giorno ritornerò, perché vorrei potessero in qualche modo conoscermi guardandomi il volto, gli occhi, senza barriere”.

 

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