Frana Sarno, 5 maggio 1998. Simone Caiazza racconta la sua vita ed ogni tanto si ferma, riprende fiato.
Come si fa ad andare avanti?
«Solo con la forza della fede ed il valore dei ricordi e della memoria. Da 25 anni apro la porta di casa e non c’è nessuno ad aspettarmi. Penso a quando trovavo mia moglie e le mie figlie». Simone Caiazza racconta la sua vita ed ogni tanto si ferma, riprende fiato. Ha perso undici familiari. È solo. Le parole sono come un sussurro perché ogni frase porta dietro di sé un’immagine, un suono. Toglie gli occhiali per un attimo, strofina gli occhi velati dalle lacrime. Tra le mani stringe una foto che ha dovuto mettere insieme perché il 5 maggio del 1998 ha perso tutto: la famiglia, la casa, i ricordi di una vita. Non ha neppure una fotografia.
Tutto distrutto. Le immagini recuperate della moglie Raffaella, delle figlie Colomba di 18 anni e Maria Rosaria di 14, le aveva un familiare. Le ha dovute ingrandire anche per recuperare i tratti dei volti dei suoi cari. È una foto sfocata e la tristezza assume un contorno ancora più doloroso perché si fa quasi fatica a riconoscere i visi. «Ho solo questa immagine». Simone riprende forza. «Dobbiamo trovare sempre il coraggio di raccontare, anche se fa tanto male.
Lo dobbiamo ai nostri familiari».
Sono trascorsi 25 anni, la sua è una vita travolta dalla frana. Ha dovuto ricostruire un pezzo dopo l’altro.
«È un dolore infinito. Per me è 5 maggio ogni giorno. Ho perso 11 familiari, mia moglie, le mie figlie. La ferita che ho dentro sanguina ogni istante».
Cosa ricorda di quel giorno?
«Non dimentico un solo minuto di quella tragedia. Già nel primo pomeriggio era venuta la nonna di mia moglie piangendo, parlava di una alluvione. Mia moglie era a lavoro, ed io verso le 18 sono andato a prendere le mie figlie, una a scuola e l’altra a lezione privata. Al centro di Sarno era tutto normale. Saliti verso viale Margherita, dove abitavo, avevo visto una grande confusione di auto incolonnate e persone che scendevano di corsa dal viale.
Ero teso, ma non pensavo ad una cosa simile, anche perché le istituzioni ci tranquillizzavano. Risalito a casa, mia moglie era tornata e mi aveva chiesto di andare a fare la spesa. Da quel momento non sono più riuscito a tornare. Ho provato a risalire, ma era impossibile.
C’erano boati continui e fango che scendeva. Sono stato accolto nell’abitazione di Milone, ed ho cercato di telefonare, ma inutilmente. Poi, mi sono allontanato per cercare di nuovo di arrivare a casa. Ho incrociato un mio collega e mi ha detto cosa stesse accadendo ad Episcopio. Ero sconvolto, non riuscivo a capire. Lui mi ha accompagnato dai miei suoceri a Foce, appena sono entrato ho visto tutti tranne mia moglie e le mie figlie. Tutta la notte si rincorrevano notizie».
Quando ha capito di aver perso la sua famiglia?
«Credo di averlo sentito subito nel mio cuore quella notte. Poi, i giorni passavano, le ricerche continuavano sui luoghi della tragedia, io vedevo scavare continuamente, anche nei pressi di casa. Le mie figlie e mia moglie non arrivavano mai al campo base dei sopravvissuti.
Tutti arrivavano, tranne la mia famiglia. Ho perso ogni speranza quando mi hanno chiamato per il riconoscimento. È stato uno strazio. Le mie figlie le ho riconosciute solo dai capelli. Non erano più i loro visi, i loro occhi, i loro sorrisi». Lei non ha nemmeno più una foto? «Quella che ho me l’hanno regalata. L’ho fatta ingrandire. La tengo sul comodino ed ogni mattina la bacio perché così le sento accanto. Io ho visto la distruzione di tutto e di tutta la mia vita. Sono solo. Spesso mi sono chiesto: “Chi mi darà il coraggio di andare avanti”. Trovo la forza nella fede e so che un giorno ci riabbracceremo»