Di Gaetano Ferrentino
“Duecento lire ‘e zeppolelle”. Questa era la colazione che facevo, quando andavo a scuola dalle “monache”. “E cape ‘e pezze”, povere Suore di Santa Marta. Il massimo diffusore di questa abitudine alimentare, che, oggi, farebbe rabbrividire tutti, era ‘Ngiulillo ‘o zeppolaro. All’orario consono, ti avviavi in piazza Croce e cercavi con gli occhi il carretto. Prima, ‘Ngiulillo si metteva sulla curva del marciapiedi, davanti a Narciso ‘ o chianchiere. Poi, si spostò sotto al portone alla fine di corso Umberto. Il carrettino. Ecco. All’inizio, aveva un carrettino con la friggitrice e due grossi pentoloni. Poi, venne la laparella. “E commo va sta laparella?”. “Ha vinut ‘u vigile sanitario. Ha cagnata ‘a legge”. Il suo fido scudiero, come Don Chisciotte e Sancho Panza, era la moglie. Sarebbe stato bello conoscere la storia d’amore che li aveva legati al lievito per sempre. Lei, con la punta delle dita, pizzicava le zeppolelle e, come una saetta, forse per impedire ai nervi di percepire la scottatura, le infilava nel cuoppo. “Ia’, mo’ te ne do qualcuna in più”. E pure qualche panzarotto. E apriva la mano, rossa e salata, prendeva le monete e se le metteva nel grembiule. Oppure in una scatola dismessa del caffé. Dove “scavotava” se doveva dare il resto. E, intanto, ‘Ngiulillo, con un enorme forchettone e la “votapescia”, continuava a friggere. Senza curarsi del tempo e ridendo sotto il baffo. E ad accarezzare l’impasto aperto da infilare nella cazzarola ribollente, dopo aver messo la mano nell’acqua. Sfrsssssh. È l’olio che sfrigge. “Mo’ ne facimme cacchiruna grossa”. Semplice col pomodoro. E con il panzarotto. Fatto con le patate gialle, ‘a matina ‘ambressa. Da Narciso, si prendevano le salsicce e lui operava. “‘O sasiccio è ‘a morte da zeppola”. E subito la carta si ungeva di olio e sapeva di sale. E gente che, per ore, faceva la fila. “Per piacere, giovino’, rispettate ‘a cora”. “Ma che glie’ sto casino? Pecche’ nun se cammina ca macchina? Sta nu funerale?”. “Sta ‘a folla annanz’adda ‘Ngiulillo”. In una sorta di divisione del territorio, il fratello Alfonso ripeteva lo stesso rito, insieme ai Pallini, in piazza Marconi. Ma noi stavamo ‘o lato acca’ e conoscevamo ‘Ngiulillo. E si cominciava la giornata con quel bruciore di stomaco che non baratterei con nulla. “Maestra, me fa mal’a panza”. “T’ha mangiat’a zeppola eh?”. “Mi posso andare a lavare le mani?”. “Immediatamente. Con questo ‘nzivatorio, a chi vuoi consolare?”. Anche, oggi, la zeppola conserva il suo fascino. Si mangia di sera, però. È più chic. Un ruolo consolatorio dal sapore della festa. “Stai ‘ngazzato? Facimmece ‘na zeppola”. “E vabbuo’. Pure si po’, pe l’alliggiri’, c’è vo’ ‘a mano du Signore”.