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‘O cunto – “Dimane amma fa i butteglie ‘e pummarole…”

di Gaetano Ferrentino

“Iateve a cocca’ che domani c’amma sosse ‘ambressa. Amma fa i buttiglie”. Queste parole sancivano l’inizio dell’antica abitudine di farsi le conserve da soli. E mi ricordava la favola della cicala e la formica. In quel momento, io imparavo a fare la formica. A lavorare per l’inverno. Per fare le “buttiglie”, tutto si sospendeva. “Dimani vulimme i’ ‘o mare?”. “Si pazzo. A ma fa ‘e buttiglie”. Mobilitazione fino alla terza generazione. L’alzataccia. Però, per i bambini, il ritardo era tollerato. Alle prime luci dell’alba sentivi già un fermento in tutto il cortile. La “curtina” ribolliva. In una grossa bacinella c’erano i pomodori a sciacquare. E si toglievano le coroncine.,i “mussilli”. Poggiati nelle gabbie, i vasetti, i “boccacci”, o le bottiglie. Di vino o di birra dismesse. “Avascia ‘a pompa che sta ‘mbonnenne a tutti quanti”. Un tavolone. Poi, si parte. Ognuno prende un boccaccio o una bottiglia nei quali infilare i pomodori “San Marzano”. “Mezza pacca alla volta”. Chi prendeva il boccaccio, utilizzava la “cocchiarella” per pigiare i pomodori all’interno, mettendo, di tanto in tanto, una foglia di basilico. “Spriemme sta vasinicola. Si no è chiena d’acqua”. Chi prendeva la bottiglia infilava e per pigiare si serviva dello “spruocco”, più utile per lo spazio angusto. Nel boccaccio, ogni tanto si metteva anche qualche pummarulillo. Nell’uno e nell’altro caso, l’orlo si raggiungeva mettendo un po’ di sugo. “Uffa, sto sugo me fa prore pe tutt’e parti”. “Ste cazz’e mosche”. I bambini facevano a gara. “Uagliu’, duecento lire a bottiglia”. Esaurito il materiale, si passava all’altra fase. Per esaurire i pomodori, spesso, si faceva una bella caponata. Il biscotto di grano, “vascuttiello”, accompagnato dal pomodoro. Aglio, olio e origano. “Comm’e’ sapurito”. I boccacci venivano tappati e stretti con l’ausilio di uno straccio per fare maggiore forza. Per le bottiglie, esisteva una macchinetta che consentiva di tapparle. Mia nonna comprò questa macchinetta che fissava i tappi. E, spesso, andava in tournée, vico vico, curtina curtina, per tappare. I grossi bidoni neri, sciacquati e risciacquati, già erano stati messi a bollire su grandi bruciatori alimentati, in tempi più recenti, da bombole. Prima, però, si usava la legna, i sarcinielli. Fascine di legno di montagna. La grande pazienza, poi, per poggiare bottiglie e boccacci nei bidoni. “Fate piano ca se scassano”. A poco a poco, tutto veniva annegato nell’acqua. “Fa chiano co sta pompa. Ce stai mbonnenne a tutti quanti”. La bollitura durava per ore. Sul trebbeto. E la patata arruscata nella cenere. Quando si usava la legna, l’effetto era prevedibile. “Che fetorio ‘e fummo!”. “Spuostate ca ‘u fummo te fa abbrucia’ l’uocchie”. Tutto puzzava di fumo. Aria, abiti. Ad un certo punto si spegneva, ma non si toccava nulla. “Hanna sta a reposa’”. E se giravi per portoni, curtine, massarie, vedevi, nel pomeriggio, questi grossi bidoni in un angolo venerati come totem. “So i pruvviste pa vernata”. E per tutto l’anno, vedevi in angoli, muri anneriti. “Cca hanno fatte ‘e buttiglie”. Il giorno dopo, tutto si toglieva e si riponeva nelle gabbie che, a loro volta, finivano in cantina. “All’asciutto, si no se perdono”. Una soddisfazione. “A no’, però che fatica. Non era meglio e accatta’ e pelate?”. “Ma chi dici? Ti piacen i maccaruni? E può pure sopporta’”.

Foto VesuvioLive

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